lunedì 31 luglio 2023

I primi Sindaci delle Università a nord di Napoli

Nella Roma antica il termine Municipium definiva le comunità italiche autonome diffuse nelle province. Il governo dei "municipia" era tenuto dai magistrati detti anche quadriumviri i quali, a loro volta, erano assistiti dai decurioni. Nel Regno di Napoli, dal medioevo e fino al XVIII secolo, i centri abitati di una certa rilevanza numerica venivano denominati Università. Il governo di questo istituto veniva affidato a persone di oneste virtù morali detti Maestri giurati i quali venivano scelti tra il popolo, con l’esclusione da parte degli ecclesiastici e di quanti appartenessero alla classe dei nobili. Ciò fu quanto stabilito, nel 1277, da Carlo I d’Angiò, e cosa a cui, però, nel corso degli anni non si diede più conto e le cariche pubbliche, addirittura, venivano vendute. La carica durava un anno ed il loro mandato consisteva nell’amministrare le finanze o la giustizia, per la quale però vi era un supervisore, detto Giustiziere provinciale; mentre i Capitani del re erano addetti alla supervisione delle finanze e ad assicurare, qualora sarebbe stato necessario, anche l’ordine pubblico. Vi erano Università feudali, ovvero sottoposte al giogo di un feudatario e Università sotto il diretto dominio della corona le quali beneficiavano di maggiore libertà e di maggiori privilegi. Già a partire dal XIII secolo i sette comuni della cinta nord si fregiarono dell’appellativo di Universitas Civium, eleggendo i propri sindaci e gli eletti in presenza del baiulo, ovvero colui che era chiamato a rappresentare il re o il signore del feudo, dopodichè si poteva amministrare in piena autonomia, o quasi. Il pubblico parlamento si celebrava nella piazza principale o sul sagrato della chiesa parrocchiale di ogni casale, e veniva chiamato a raccolta dai rintocchi della campana. Dall’eccellentissimo lavoro di Giuseppe Capasso “Mugnano e Carpignano, la storia attraverso i documenti” ricaviamo note degne dei migliori storici. L’autore riporta il nome di uno dei primi sindaci della comunità mugnanese, un tal Antonio Migliaccio, il cui mandato risale al 1653. Dal superbo lavoro del compianto Giuseppe Barleri “Marano tra dominazioni e rivolte” veniamo a conoscenza che a governare il casale di Marano, nel 1578, vi era Gio:Tomase Caranante, coadiuvato dagli eletti Leonardo Caranante e Antonio de Lajerno. Nella Qualiano del 1678, sindaco era un tal Pietro Cacciapuoti. Il feudatario di Panicocoli (Villaricca), Antonio Parisio, nel 1653, accolse la richiesta della cittadinanza di reggersi a comune per la quale venne eletto il primo sindaco e i due decurioni. Purtroppo gli antichi dati sono andati persi e l’elenco dei sindaci parte dal 1816, quando a governare il piccolo paesello vi era Filippo D’Alterio. Gli eletti della Calvizzano del 1669, risultano essere un tal Stefano Faticati e Andrea de Sonna: governatore, invece, fu Giacomo Buyl, alfiere spagnolo. Nel 1745, sotto il regno borbonico di Carlo III, Melito era amministrata dal Sindaco Stefano Lombardi. La Giugliano secentesca, invece, vede al governo della città nientemeno che Giambattista Basile, su nomina del duca Galeazzo Pinelli il quale divenne padrone del casale nel 1536. L’ordinamento cui definiva le caratteristiche del Comune ebbe vita con il decreto legislativo del 1859 emanato da Urbano Rattazzi, uomo politico ben visto dalla casa reale. La legge fu da molti contestata in quanto faceva convergere sullo stesso Stato molti dei suoi poteri, escludendo, tra l’altro, l’ipotesi della costituzione delle Regioni e deludendo, così, quanti aspiravano all’autonomia dei governi locali. La legge fu promulgata nell’ambito dell’approvazione del “Codice Amministrativo” con nr.2248 del 20 marzo del 1865; denominata Legge comunale e provinciale del Regno d’Italia.


(Foto sopra: Giambattista Basile, il quale fu sindaco (governatore)  di Giugliano per conto del duca Pinelli). Immagine tratta da Wikipedia.


testo di Carmine Cecere

 

 

sabato 29 luglio 2023

Napoli Nord, Conventi e ordini religiosi esistenti e soppressi

Dove oggi vi è il cimitero di Marano, un tempo, annesso all’attuale chiesa di Santa Maria della Cintura di Vallesana, sorgeva il convento dei padri agostiniani eremiti. Con l’atto testamentario, datato 10 dicembre 1630, il nobile Girolamo de Sangro dona al suo erede, Giovan Battista, tutti i suoi beni, nonché una somma di mille ducati per la costruzione del detto convento. Il primo priore fu un certo Guglielmo Galaterio. Nel 1746 i frati diedero in affitto, a un tal Michele Andreozzi di Aversa, il vecchio refettorio che lo tramutò in negozio di spezie e medicine. Con decreto n°448 dell’8 agosto 1809, emanato sotto il dominio francese da Gioacchino Murat, avvenne la soppressione di tutti gli ordini religiosi e quindi anche di quello agostiniano maranese. Nel 1820, invece, dopo quasi due secoli di vicissitudini di detto convento, iniziò l’abbattimento e quindi la costruzione di un primo nucleo del cimitero di Marano i cui lavori però furono sospesi e ripresi poi, per ultimare il tutto, nel 1839. Duecentotrenta anni prima, esattamente nel 1609, fu stipulato l’atto di donazione della proprietà detta “l’olmo” dei signori Dentice delle Stelle a favore del Frate Gervasio da Perugia, dell’ordine dei Francescani Minori, per la costruzione, a Marano, della chiesa e del convento di Santa Maria degli Angeli. Il travaglio di tale complesso fu lungo e tormentoso, infatti, nel 1649, durante i lavori alla cupola della chiesa questa crollò causando diverse vittime tra le maestranze. Ad affrescare le volte del refettorio e del chiostro fu Angelo Mozzillo di Afragola, acclamato pittore di fine settecento, le cui opere sono ammirate in diverse chiese napoletane come San Lorenzo Maggiore, Sant’Anna dei Lombardi e presso l’Eremo Camaldolese. In questo convento vi soggiornò anche padre Ludovico da Casoria. Diverse volte, tale struttura, ha rischiato di essere soppressa. Come pure il convento dei francescani di Giugliano, il cui podere fu donato dal duca Pinelli ai Cappuccini i quali nel 1617 lo edificarono, dedicandolo alla Madonna delle Grazie con annessa chiesa. Soppresso dalle leggi francesi diventò una scuola e un ospizio per i mendicanti. Alla morte dell’ultimo frate cercatore Fra’ Serafino Mallardo, avvenuta nel 1992, fu valutata l’ipotesi della chiusura del convento, ma fortunatamente nella struttura vi si svolgono tuttora diverse attività. Nella Mugnano del 1800, tra i boschi e i meleti di un ameno luogo posto a sud-ovest della cittadella, Suor Angela Maria Pignatelli acquistò dei locali, o quello che restava di un antico rustico, per farne una casa per orfanelle e il 17 giugno del 1818 fondò il Ritiro del Carmine. Nel 1835 la comunità era composta da 36 suore guidate dalla Superiora Suor Maria Luisa Cirino e la sua Vicaria Suor Maria Felice Chianese. La chiesa dedicata alla Madonna del Carmine fu eretta nel 1860 come si evince dalla lapide a destra dell'ingresso e inaugurata con solenne cerimonia da Mons. Vincenzo Taglialatela, Arcivescovo di Siponto, nel 1861; il primo curatore della chiesa fu don Vincenzo Orlando. Nel 1937, a seguito della mancanza di vocazioni, il ritiro fu ceduto alle suore Discepole di Gesù Eucaristico guidato da Suor Maria Rosaria Fornari. Nel 1940 ebbe inizio la scuola Elementare con regolare autorizzazione da parte del Provveditorato agli Studi nel 1944, dopodichè, nel 1946, si diede inizio anche alla scuola Media femminile. Tante sono le suore che hanno vissuto per molto o per poco tempo presso la casa di Mugnano. Ne ricordiamo alcune in ordine casuale: Suor Rosalia, Suor Silvestra (arrivata a Mugnano nel 1960), Suor Crocifissa, Suor Arcangela (la prima suora guardiana dal 1937), Suor Augusta, Suor Raffaelina, Suor Geminiana, Suor Vita Lucia, Suor Lina, Suor Gemma, Suor Jole (presente nel 2003, natia di Chiaiano) e l’ultima Superiora Suor Decorosa. La vita delle suore in questa casa si svolgeva intensamente. L’ impegno di queste “piccole” donne era profuso in diverse attività: spirituali, pedagogiche e artistiche. Ricordo con particolare calore quando, durante le festività natalizie, nella Cappella veniva addobbato su di una colonnina una piccola culla avvolta di tulle con dentro una bellissima statuetta del Gesù Bambino. Il Capasso, nel suo "Mugnano e Carpignano", ci racconta delle famose sfogliatelle del Ritiro, le quali furono presentate finanche alla mensa dei reali di Francia e di Fabrizio Corbera detto il Gattopardo. la Congregazione delle Discepole di Gesù Eucaristico abbandonò il convento e Mugnano, ufficialmente l'1 settembre del 2003, ancora una volta per mancanza di vocazioni.


Foto 2016, panoramica interna del Ritiro del Carmine.
Foto di Carmine Cecere


(Sopra: foto Ritiro 1937, la prima suora guardiana suor Arcangela. Foto Carmine Cecere)

testo di Carmine Cecere

 

venerdì 28 luglio 2023

San Giacomo Apostolo e Calvizzano

La storica scoperta avvenne nel 1988 da parte dei ragazzi dell’Azione Cattolica locale

 

Dalle pagine de “Il Mattino” del 29 aprile del 1988, Francesco Vastarella metteva in risalto quanto sostenuto da don Giacomo Di Maria, sacerdote, nonché storico della città di Calvizzano, in merito al rudere posto in Via San Giacomo. I resti, che furono rinvenuti lungo l’attuale strada che oggi congiunge Calvizzano con Mugnano, alle spalle del nuovo stadio di Marano, e che appena due anni fa la sovrintendenza ai Beni Archeologici ha portato alla luce i diversi loculi funerari, appartenevano alla prima Chiesa Madre di Calvizzano, le cui fondamenta, però, custodivano la grande novità. Difatti, nel 1988, durante i ritrovamenti avvenuti in seguito all’attività di ripulitura del sito da parte dei ragazzi dell’Azione Cattolica della Parrocchia Santa Maria delle Grazie, con la collaborazione del gruppo archeologico «Chianese» di Villaricca furono rinvenute le murature in pietra di tufo, le quali presentavano la classica costruzione in “opera reticolata (opus reticulatum) e ammorsature in opera vittate, di cui alcune formanti il praefurnium delle terme”. E ciò bastò per asserire che quanto ritrovato risaliva chiaramente a epoca romana. Furono rinvenuti intonaci con pitture policrome e mosaici a tessere bianche e nere. Nel lato nord del complesso vi era una cisterna anch’essa in opera reticolata. Il sacerdote professor Rafafele Galiero, nel suo “Storia di Calvizzano” del 1930, narrava quanto riportato nel manoscritto, stilato nel 1663, dal primo storico calvizzanese Marco Antonio Syrleto; il quale, testimone oculare, asseriva che a pochi passi dalla chiesa di San Giacomo vi era la tomba del Centurione Caio Nummio: questi apparteneva alla “terza coorte petronia e decima urbana”, milizia istituita per la difesa dell’imperatore. Ciò era quanto riportato dalle iscrizioni sulla lapide. Tale sepolcro, afferma il Syrleto, fu eretto dai familiari del milite, e distrutto, dai tombaroli, nel 1623: sostenendo, inoltre, che nelle vicinanze vi fosse un praedium, cioè una villa. Quindi si deduce che la chiesa fu costruita sulle fondamenta dell'antica villa del Centurione Caio Nummio, lungo la diramazione della antica Via Consolare Campana, prima del 951 d.C. e fu dedicata all’Apostolo Giacomo. Forse fu una delle chiese più antiche del territorio: senz’altro fu una delle più importanti chiese della Diocesi napoletana e meta di pellegrini provenienti da ogni parte di Napoli; nel giorno della festa e cioè il 25 luglio, i Calvizzanesi in onore del loro santo protettore, durante le festività, dispensavano a tutti i partecipanti del grano, da cui prese il nome l'usanza e cioè: "Carità del Grano". Ed ecco come la descrisse il Cardinale Ascanio Filomarino in seguito ad una sua visita pastorale tenuta nel 1646: “…si accede alla chiesa salendo quattro scalini di legno che sono davanti all’unica porta. La navata, compresa la tribuna, è lunga circa 24 metri, larga 7 e 9 di altezza. Il pavimento è di terra mentre il tetto di tegole, sostenute da travi e architravi. A sinistra c’è il fonte battesimale. Due scalini precedono la piccola tribuna, in mezzo alla quale è eretto l’altare che ha la mensa e la predella di marmo…”. Dall’opera “Parrocchia di San Giacomo a Calvizzano” dell’illustre Barleri, edita nel 2002, riportiamo uno stralcio del resoconto della visita pastorale del Cardinale Ruffo Scilla, avvenuta nel 1819. “…questa Parrocchiale Chiesa è antichissima, né si ha memoria della sua fondazione. Vi è un solo altare di legno, ed una sepoltura in mezzo. Esiste una piccola campana, ed una basso con cameretta, sopra, per comodo di un eremita, che custodiva allora detta Chiesa, il tutto ad essa contigua. Ha per dote detta Parrocchia moggia ventiquattro di territorio, cioè, so di esse contigue a detta Chiesa Parrocchiale e le altre 14 in distretto ben anche di Calvizzano, nel luogo detto di Corigliano…è in potere del Parroco calice con Patena, un bastone con pomo d’argento posto nelle mani della statua del Santo Protettore, ed un Ostensorio d’argento dov’è riposto la reliquia di S.Giacomo, con altri arredi sacri… ”. Diversi sono i documenti in cui questa antichissima chiesa viene menzionata e diverse sono state le visite pastorali effettuate da parte dei Cardinali che si sono succeduti nell'arco dei secoli: 1542 Francesco Carafa; 1566 Mario Carafa; 1598 Alfonso Gesualdo; 1607 Ottavio Acquaviva; 1623 Decio Carafa; 1639 Francesco Buoncompagno; 1646 Ascanio Filomarino; 1677 Innico Caracciolo; 1698 Giacomo Cantelmo; 1714 Francesco Pignatelli; 1746 Giuseppe Spinelli; 1819 Luigi Ruffo Scilla; 1835 Sisto Riario Sforza; 1850 Guglielmo Sanfelice; 1884 Giuseppe Prisco; 1902 Filippo Giudice Caracciolo. Durante il dominio francese di Gioacchino Murat (re di Napoli dal 1808 al 1815), truppe napoleoniche trasformarono la chiesa di San Giacomo in un distaccamento militare dove vennero seppelliti anche alcuni soldati caduti in battaglia. Gli ultimi scavi effettuati nei dintorni del sito, nel corso del 2004, sono stati di scarsa rilevanza, e il tutto è stato ricoperto a cura dell’organo competente. Oggi di quella storica struttura non rimane più niente, forse solo i pochi ricordi di qualcuno e le poche cose scritte.

Richiesta di esplorazione sito
Per rinvenimento resti della chiesa

(Foto sopra anni '30: resti antica chiesa di San Giacomo, tratta da "Il Mio Paese" Sac. Raffaele Galiero.)

testo di Carmine Cecere

giovedì 27 luglio 2023

Basile e "lo Cunto" di Napoli nord

Immaginate Giambattista Basile in groppa al suo ronzino che se ne va scorrazzando per i nostri Casali tra i boschi e le selve cui, sicuramente, contribuirono alla creazione del suo mondo fantastico. L’immenso mare di verde sottostante la collina dei Camaldoli e i remoti anfratti furono, probabilmente, lo scenario in cui, il Basile, incastonò le sue perle fiabesche: spianando così la strada alla favola moderna. La data e il luogo di nascita, da sempre incerto, dell’autore de “Lo Cunto de li cunti” è stata determinata in seguito al ritrovamento di un documento, nel quale risulta che Gian Alesio Abbattutis ovvero Giambattista Basile ebbe i natali nella cinquecentesca Giugliano il 25 febbraio 1566. Come ce ne riferisce Emmanuele Coppola nel suo “Giambattista Basile nacque a Giugliano nel
1566”, pubblicato nel 1985. Il Basile, forse, spinto dall’amore per l’avventura, nel primo decennio del 1600, si arruolò nell’esercito della repubblica veneziana di stanza a Creta. In Italia, invece, fu al servizio delle corti di Acerenza, Avellino, Napoli e Mantova. A Mantova, al servizio della corte ducale di Vincenzo Gonzaga, vi lavorò anche la sorella Adriana, la quale fu una cantante richiestissima e molte delle opere da lei cantate, tra cui i madrigali, furono scritte da Giambattista e musicate, forse, dal fratello Donato. Il Basile fu membro dell’Accademia degli Oziosi diretta da Giambattista Manso, biografo di Torquato Tasso, e di quella degli Stravaganti. L’illustre letterato fu, per conto dell’amministrazione vicereale, governatore di Avellino nel 1619, dal 1621 al 1622 in Basilicata, nel 1626 ad Aversa; nel 1631 divenne governatore di Giugliano, su nomina del duca Galeazzo Pinelli. Il suo amore viscerale per la letteratura lo impegnò al componimento di diverse opere, tra le quali: “Smorza crudel Amore” Villanella, messa in musica e pubblicata da Giovan Domenico Montella nel 1605; “Il pianto della vergine” (1608) raccolte di madrigali e ode; “Ritratti delle più belle dame napolitane ritratte da' lor propri nomi in tanti anagrammi”; “Le avventurose disavventure” 1613. L'opera, postuma del 1635, le egloghe delle “Muse napoletane”. “La Venere addolorata, un dramma per musica in cinque atti; ed infine “Lo trattenimento de’ peccerille” detto anche Pentamerone, in quanto la costruzione narrativa ha una struttura simile a quella boccacciana del Decamerone. I racconti in esso contenuti sono senz’altro attinti dalla tradizione popolare ma magistralmente elaborati. Il mondo fantastico del “Lo Cunto de li cunti” ispirò le fiabe del francese Charles Perrault, il quale nel 1697 pubblicò i Racconti di mamma Oca , nella cui raccolta vi era la fiaba di “Cenerentola” e quella de “La bella addormentata nel bosco”. Senza tralasciare quelle tedesche dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm nell’ottocento: i quali crearono, o meglio ancora svilupparono l’inossidabile “Biancaneve e i sette nani”. La topografia che evince da alcuni racconti del Pentamerone riguarda senz’altro il nostro territorio oltre ad altrettante zone di Napoli. Il racconto di “Mortella” è ambientato nell’antico casale di Miano;  quello di “Peruonto” nella paludosa Casoria e in quello delle “tre fate” è citata Panicocoli. Mentre in Cagliuso è menzionata Melito, precisamente le cinque vie. Nel racconto dal titolo “Il mercante” il Basile fa fare una sosta, al protagonista, nella “Taverna del Pisciaturo”. Il luogo è palesemente riportato da diverse carte topografiche. Una risale al 1793 e attesta che tale posto ricadeva nel territorio di Mugnano, sull’antica strada che conduceva a Chiaiano e Piscinola. La storia narra che un certo “Cienzo rompe la testa ad un figlio del re di Napoli, durante una sassaiola, e per questo è costretto a fuggire dalla sua città. Saputo che la figlia del re di Perditesta è nelle grinfie di un dragone lo uccide e libera la fanciulla, che dopo mille peripezie la sposa; ma affatturato da una femmina, è liberato dal fratello, che, dopo averlo ucciso per gelosia, scopre innocente e con una certa erba lo fa tornare in vita”. Quindi potremmo asserire che le fiabe dell’illustre Basile, anche se con un velo di dubbio, in parte sono nate nel nostro territorio per lo meno il paesaggio ha contribuito alla costruzione del mondo fantastico del padre della favola. L’opera de “Lo cunto de li cunti” fu data alle stampe, dalla sorella Adriana, nel 1634 a due anni dalla scomparsa dell’illustre giuglianese.

Giambattista Basile
(Benedetto Croce asserì che nacque a Napoli, Quartiere Posillipo, nel 1575;
Il giornalista giuglianese Emanuele Coppola dà i natali a Giugliano nel 1566.
Foto tratta dal sito web "Cose di Napoli" dell'Associazione di propaganda turistica e culturale
APT Napoli)

(Foto sopra: tratta dal sito "Laboratorio Stabile di Teatro, Brochure della rappresentazione "La gatta Cenerentola")

testo di Carmine Cecere

 

Cronache d’altri tempi nei comuni a nord di Napoli

Pur essendo sette piccoli casali, i comuni del nostro territorio, non erano immuni a fatti di cronaca. Talvolta tragici, talvolta sorprendenti. Tuttavia scarse e scarne sono le fonti da cui si è potuto attingere quel poco di quanti, nel corso delle varie epoche si sono improvvisati provetti cronisti del proprio tempo raccogliendo vicende umane, nonché problematiche sociali e talvolta politiche che, allora come adesso, attanagliavano la vita di questo territorio. Tra le ingiallite carte degli appassionati cultori di storia locale scorre quella linfa che irrora la passione per la conoscenza del passato. Passato che non è fatto solo di grandi eventi o di stravolgimenti, ma soprattutto di attimi di vita quotidiana, di un susseguirsi di gesti, di sentimenti, di umanità. Come ne è pieno il diario redatto dal villaricchese Giulio de Alterio, cappellano della chiesa di San Mattia di cui ce ne parlano Pirozzi e Scarpato nella loro pubblicazione degli anni ottanta. Nella seicentesca Panicocoli, tratto dalla omonima pubblicazione, accadeva: «Pentecoste del 2 giugno 1673. Nicola Corse figlio di Michele di anni tre scarsi ha pigliata la sorella di mesi 3 da dentro la connola e la portata a gettare dentro la latrina et è morta». Nella notte del 2 settembre dello stesso anno, invece, una tempesta di notevole consistenza sradicò numerosi alberi in tutto il circondario, la zona venne completamente allagata e circa 1500 botti, contenente vino, andarono distrutte. Alle prime luci di martedì 30 luglio 1675 Villaricca fu invasa da una carovana di circa 70 zingari i quali si accamparono davanti la chiesa parrocchiale per poter svolgere, secondo le proprie usanze, i funerali di due loro appartenenti. Dopo il rito religioso, celebrato dal parroco, iniziò una cerimonia che durò circa due giorni, nei quali, ininterrottamente, si danzò a ritmo dei tipici suoni zigani, consumando un sostanzioso e succulento pranzo. « L’8 settembre del 1694, giornata della Beata Vergine giorno di mercoledì ad hore 18, meno un quarto è stato un terremoto simile a quello dell’anno ’88 con grannissimo danno della città, ma sensa morte di persone di Napoli et non posso scrivere i danni verso Basilicata et altri luochi con essere cascati terre (intere) et morte di tutti habitanti». Nel 1686, in seguito ad un violento temporale le acque che dalla collina dei Camaldoli si riversarono nella pianura sottostante travolsero il casale di  Marano e gli altri casali vicini, causando diversi danni a cose e a persone; difatti un giovane maranese, travolto dalla furia delle acque, fu trovato cadavere nelle campagne di Mugnano. La domenica delle Palme del 1700 ci fu una nevicata eccezionale che per quattro giorni consecutivi i bambini del paese giocarono, ininterrottamente, a lanciarsi  palle di neve. Alcuni nobili di Mugnano, ovvero i figli di Prospero Caracciolo, sostennero i moti popolari del 1647 rischiando, così, di finire sulla forca. Mentre nello stesso periodo i rivoltosi maranesi distrussero i beni della principessa Catarina Manriquez, figlia del Marchese di Cirella e amante di Filippo IV di Spagna la quale scappò dal suo feudo di Marano per mettersi in salvo. Litigi e incomprensioni non mancarono nemmeno nella Mugnano di fine settecento, allorquando il principe Zurlo, antico proprietario dell’attuale palazzo Capasso di Via Chiesa, trascinò innanzi la Corte della Vicaria alcuni cittadini che, a suo dire, depositavano materiale facilmente infiammabile davanti l’ingresso del suo palazzo, mettendo, così, in pericolo i suoi beni. La sera del 28 giugno del 1799, a Calvizzano in Via Case Nuove, fu catturato l’ammiraglio Francesco Caracciolo, sostenitore della breve Repubblica Partenopea. Nella Calvizzano della “Bella epoque” nasce il biscottificio Gagliardi, rinomato in tutta Napoli e provincia. Oggi nei locali del prestigioso opificio vi è la biblioteca comunale. Il  6 giugno del 1934, Calvizzano addobbata con i vessilli savoiardi ed una folla festante, con la fanfara che suonava “l’inno del Piave” accolse, per l’inaugurazione del tanto atteso monumento ai caduti, il Principe di Piemonte Umberto II di Savoia. Tragico, invece, fu  il 24 giungo del 1934, giorno nel quale persero la vita quattro giovani mugnanesi annegati nelle acque del lago Patria. Nello stesso anno Benito Mussolini premiava Vincenzina Marfella, mugnanese, la quale fu proclamata “La Madre napoletana” in quanto mamma di tredici figli. All’indomani del 8 settembre del 1943, i partigiani maranesi ebbero diversi scontri a fuoco con le truppe tedesche di stanza nel nostro territorio; gli ardimentosi nostrani, ai comandi del tenente Silvestri, misero fuori uso alcuni depositi contenenti munizioni e pezzi di ricambio di aerei nascosti in alcune cave del maranese. La difficile ripresa politica e sociale del dopoguerra fu affidata al Democristiano Alcide De Gasperi, il quale, nelle vesti di Primo Ministro della nascente Repubblica Italiana, visitò Mugnano il 4 febbraio del 1951. Ad accoglierlo ci furono i membri delle locali sezioni della D.C. dell’intero circondario. La piazza del paese era stracolma di gente che aveva riposto la propria speranza in colui che doveva contribuire alla rinascita di un mezzogiorno in bilico sull’orlo del baratro.

(Foto tratta dal Web: il "Monitore Napolitano", diretto da Eleonora de Fonseca Pimentel)

testi di Carmine Cecere


domenica 23 luglio 2023

Mugnano e i re della pasticceria

Il cibo è arte e la pasticceria la possiamo definire la regina di quest'arte. Voglio dedicare questo post a uno dei re pasticceri di Mugnano, Antimo De Rosa. Il negozio-laboratorio fu aperto nel 1968, in Via Napoli e dove è lì ancora ben radicato nella sua lunga storia di uno dei lavori artigianali più impegnativi che ci siano fra i tanti. Il locale sempre modesto nella sua estensione, ma più professionale che mai nella produzione di ogni ben di dio. Realizzati con il sapere tramandato e il sapore di mani esperte che sanno creare. Generazioni e generazioni hanno assaporato ciò che il maestro ha offerto all'utenza mugnanese e non. Tutta Mugnano deve riconoscenza a un uomo che ha donato la sua arte e tutta la sua vita a questa comunità che, a dire il vero, l'ha sempre apprezzato e stimato. Ormai Antimo, seppur è un ottuagenario, sembra sempre instancabile e vivo come un capitano pronto ogni giorno a una nuova avventura sul suo vascello di leccornie. Io avevo sette anni, quando dal 1969 iniziai a frequentare la pasticceria di Antimo, in special modo la domenica, quando con tutta la famiglia si andava a pranzo dalla nonna paterna che abitava a un isolato dal suo esercizio. Prima di salire al secondo piano dov'era domiciliata la nonna Concetta, io e papà ci recavano da Antimo a farci confezionare un vassoio di tante prelibatezze; e il pranzo della domenica, con tutti i famigliari intorno alla grande tavola, culminava nella degustazione delle opere di un grande maestro pasticcere. Grazie di cuore e di gusto, Antimo.

Antimo De Rosa nel suo esercizio.
Sopra: un cliente mentre è intento
Ad acquistare gli squisiti
prodotti artigianali di Antimo.
Clicca le foto per ingrandirle.
Foto Carmine Cecere 2023.



testo e foto di Carmine Cecere 

sabato 22 luglio 2023

Catarina, Principessa di Marano e amante di Filippo IV di Spagna

Fu per gratitudine o per punizione che Filippo IV di Spagna donò, alla sua concubina, il Feudo di Marano? Ciò è quanto si chiedeva il Barleri nell’attenta ricostruzione di un momento storico interessante vissuto dalla sua città. Allontanata dalla reale corte ispanica, Catarina Mandrie y Manriquez de Mendoza, giunse nella città partenopea nel 1629, presumibilmente e contestualmente al possesso del vicereame da parte del Duca d’Alcalà, Enriquez Afan de Ribera. Catarina era figlia del Marchese di Cirella, discendente del più famoso don Giovanni Manriquez, Consigliere di Stato e Prefetto Pretorio di Sua Maestà Cattolica; rappresentante dell’ordine e milizia di Calatrava, nonché luogotenente e capitano generale, figlio del secondo duca di Najra, e conte di Trivigno. In una bolla reale si afferma che per tali motivi, e per i tanti servigi che tale casata offrì alla corona di Spagna, il re volle concedere, a donna Catarina, il titolo di Principessa. Ma le male lingue di corte ed il popolo le diedero l’appellativo di “Reginella”, in quanto diverse fonti asserirono che dalla relazione con Filippo IV nacque un bambino, il quale morì prematuramente. Dai documenti ritrovati, con certosina pazienza dal Barleri, ci è sembrato di capire che il re spagnolo e il duca d’Alcalà architettarono una serie di brogli in merito alla vendita del casale di Marano. Il più eclatante fu quello ai danni di don Girolamo de Sangro, Principe di San Severo; questi, aggiudicatosi la vendita del casale di Marano, se lo vide sottrarre, malgrado fosse avvenuta la chiusura del bando da parte del Regio Consiglio. Con un comportamento di palese sopraffazione il Vicerè rilanciò una maggiore offerta, riuscendo così a far assegnare, alla protetta del re spagnolo, il casale di Marano. Stabilitasi nel suo palazzo di Pizzofalcone in Napoli, la bella Catarina si godeva la vita e il suo piccolo regno, fatto: “dal reddito dei vassalli e delle loro masserie, dai giardini, dagli orti, dalle vigne, dai forni, dalle montagne, dagli alberi, dalle terre, coltivate ed incolte, dalla servitù, ed i diritti di servitù. Nonché territori, tenimenti, comunità, usi, diritto di piazze, boschi, erbaggi, pascoli, prati, querce, castagni, acque, fiumi, paludi, pantani, mulini e con il Banco della Giustizia”. Nel 1637, per volontà di Filippo IV, Catarina convola a nozze con il Conte Carlo Francesco Maria Zerbellone (Sorbellone) di Milano, dal cui matrimonio nacquero: Antonio, Teresa ed Eufrasia. Nel luglio del 1647, la rivolta popolare capeggiata da Masaniello coinvolse anche la Principessa di Marano; accusata di “tirannizzare i paesani con numerose gabelle, Masaniello ordinò di bruciarle la residenza di Marano, dalla quale Catarina fuggì lanciandosi da una finestra e mettendosi  in salvo nascondendosi nelle oscure selve del Casale. Dopo tre anni dalla rivolta “si fece pagare i danni causateli e per giunta con i relativi interessi”. Nata nel 1613, all’età di trentanove anni, Catarina, si risposa con il quarantunenne Ambrosio del Nero, Marchese di Monteborusio, il quale morirà, il 7 gennaio del 1657, dopo appena cinque anni di matrimonio. Giovanni Geronimo, unico erede del marchese, sposerà la sorellastra Eufrasia. La casata diventava sempre più potente, i loro beni si estendevano dalla Calabria alla Campania e consistevano in beni immobili e denari contanti. La nipote, Maria Francesca del Nero, figlia di Eufrasia, andò in sposa a Ferdinando Spinelli Principe di Tarsia. Mentre Antonio, figlio di donna Catarina, sposò Teresa Coppola, i due ebbero un figlio di nome Pietro. L’altra figlia, Teresa, si accasò con Martino Diaz Pimento, Regio Consigliere del Consiglio di Capuana, da questa unione nacque Alfonsa. Si sa fin dalla notte dei tempi che i nobili si son sempre congiunti con i loro simili, fatta eccezione in alcuni casi. Infatti la discendenza della Principessa di Marano, nel corso degli anni si unì con diverse famiglie nobili e quella di maggiore rilievo fu senz’altro la famiglia Caracciolo, la quale ebbe ben quattro principi che governarono il casale. Nel libro V dei morti della Parrocchia di San Marco di Palazzo in Napoli, dall’eccellentissimo lavoro del Barleri si evince che, il 17 dicembre del 1690, donna Catarina Manriquez, Principessa di Marano, cessò di vivere all’età di 90 anni.


il palazzo baronale dove
dimorava Catarina
abbattuto negli anni '80.
Sopra il palazzo in una foto antica.
Foto tratte dal Volume "Donna Catarina
Mandrie y Manriquez" di
Peppe Barleri Biondi, Napoli 2005 


 testo di Carmine Cecere

venerdì 21 luglio 2023

"Sono Salvo! ...e ti racconto l'autismo"

Trentola, 21 luglio 2023. Un sole splendente e caldo d'amore illumina un'iniziativa in cui l'inclinazione al bene per il prossimo, nel caso specifico per i bambini speciali, quelli da sempre definiti disabili, diversi, è degna di menzione e riconoscimenti da parte dell'opinione pubblica e non solo. "L'autismo è parte di questo mondo, non è un mondo a parte". Esordisce l'europarlametare Chiara Gemma nella prefazione della sua recente pubblicazione "Sono salvo ...e ti racconto l'autismo" in collaborazione con la giornalista de "Il Mattino" (redazione Caserta) Marilù Musto, da sempre impegnata in questa battaglia in quanto mamma eccezionale di un ragazzo speciale, la quale ha illustrato le finalità del fumetto e sottolineato l'impegno profuso da sempre a favore dei bimbi speciali. In un bene confiscato alla criminalità, si è dato luogo a un'opera di grande solidarietà. Presso la struttura balneare"Night & Day" gestita da Salvatore Di Caprio, il cui programma è stato illustrato da un'operatrice, enumerando le molteplici attività che si svolgono. Oltre al nuoto, si tengono corsi di alfabetizzazione, educazione motoria con il maestro Gino Mottola. Laboratorio musicale con il maestro Giorgio Migliore, laboratorio di pittura e manualità, nonché gare di scacchi e dama e giochi di divertimento. Il tutto organizzato da "Il Cappellaio magico" in collaborazione con "Crazy Fitness", " A.S.D. Libur" e l'associazione artistica di Trentola Ducenta "I figli di Cibele". Sono intervenuti il maresciallo Enrico Nuvoletta, collaboratore di "Libera", Fratello del carabiniere vittima della criminalità Salvatore Nuvoletta, nonché anche lui carabiniere, in pensione, il quale negli anni di piombo fu uno degli uomini della scorta del Generale Dalla Chiesa. Ha esaltato, quindi, l'impegno della comunità civile e l'operato dello Stato e delle forze di polizia nella dura guerra al crimine. Il cavaliere della repubblica Franco Musto ha evidenziato l'importanza di questa realtà su un territorio da sempre martoriato ed ha elogiato tutti gli operatori che offrono il loro tempo in favore dei bambini speciali. Le riprese della manifestazione sono state a cura della TGR Campania.

Maresciallo dei carabinieri in
quiescenza Enrico Nuvoletta.
Negli anni settanta fu uomo della scorta
del Generale Dalla Chiesa,
ora è collaboratore di "Libera"


la giornalista Marilù Musto presenta 
Il fumetto "Sono Salvo! ...e ti racconto l'autismo". Foto Carmine Cecere 

Testi di Chiara Gemma
Disegni di Giancarlo Covino
Cafagna Editore 


testi di Carmine Cecere 


giovedì 20 luglio 2023

Mugnano, i “Cocchieri d’affitto”

Agli inizi del ’900 il trasporto pubblico nel nostro territorio era assicurato dall’Ippovia, sostituita poi dai tram elettrici, e dai pochi vetturini che con le loro carrozzelle o calessi davano facoltà, a chi se lo poteva permettere, di servirsene. L’uso di tale mezzo, per i ceti meno abbienti, era ristretto alle occasioni particolari come matrimoni, battesimi o per recarsi con urgenza in città. Nel primo decennio del ‘900 Mugnano contava un folto numero di vetturini, i quali risultano essere i seguenti: Giaccio Giuseppe, Iacolare Sabatino, Cipolletta Domenico, Attanasio Antonio, Giaccio Biagio, Mangione Francesco, Di Bernardo Giovanni, Iacolare Pasquale, Giaccio Pasquale e Schiattarella Francesco. Il principale luogo di stazionamento era senz’altro la piazza principale dove però veniva fatto divieto di svolgere attività di lavaggio dei cavalli e tantomeno le riparazioni alle vetture. L’Amministrazione comunale mugnanese era sovente fare uso di tale servizio, poiché non vi era soluzione diversa. I costi del noleggio dipendevano dal percorso, come si evince da diverse delibere comunali. Infatti, con verbale n°62 si liquida, con lire 2.25, il cocchiere Giaccio Giuseppe per trasporto, all’Ospedale degli Incurabili, del signor Natale Renella, povero e gravemente ammalato. Con delibera n°63, invece, si saldano lire tre al vetturino Iacolare Sabatino per aver trasportato all’Ospedale Cotugno il giovane Vallefuoco Loreto affetto da Erisipela (patologia contagiosa e infettiva dovuta ad infezione di ferite). Con la stessa si liquida, sempre con lire tre, il cocchiere Cipolletta Domenico per essersi recato a Napoli presso la Regia Prefettura a prelevare due casse di bottiglie di sublimato per le disinfezioni; e ancora lire tre al vetturino Attanasio Antonio per aver accompagnato presso l’Ospedale Cotugno il piccolo Cipolletta Luigi affetto da Vaiolo. Capitava spesso che il Comune si faceva carico di tali spese, in quanto i malcapitati risultavano poveri e quindi non in grado di pagarsi il trasporto. Con delibera 64 del 1901 si pagarono i vetturini Giaccio Biagio e Iacolare Pasquale per aver accompagnato una delegazione della Giunta comunale a Casoria per il benvenuto del nuovo Sotto-Prefetto; in quanto codesta cittadina era capoluogo di circondario e sede della sottoprefettura del primo distretto, a cui apparteneva, per l’appunto, il Comune di Mugnano. Quindi capitava spesso che i nostri vetturini ci si recavano per la consegna di documenti amministrativi per conto del Comune. Come per la consegna, ad esempio, delle liste di leva avvenuta il 1 luglio del 1901 da parte del Segretario comunale Giuseppe Petroli recatosi con il nolo della vettura di Di Bernardo Giovanni per lire quattro. Lire 2.50, invece, furono date al vetturino Mangione Francesco per aver accompagnato il Sindaco e parte della Giunta nella contrada detta Madonna delle Grazie per assistere alla perizia per il risarcimento danni, arrecati dal declivio delle acque, richiesto dai germani Ruggiero di Napoli. In seguito ad una rissa un tal Vincenzo Del Core fu gravemente ferito, al che il farmacista Giannetti Luigi, avendolo visitato, ritenne necessario il ricovero presso il nosocomio dei Pellegrini. Il trasferimento avvenne a tarda sera ed il vetturino di turno, Schiattarella Francesco, pattuì con il comune un compenso di quattro lire. Capitò pure, all’insaputa degli stessi vetturini, di prendere parte ad avvenimenti epocali; come per un tal Cipolletta Domenico, il quale nel 1908, nel mese di dicembre, trasportò presso Villa Vulpes il Sindaco ed il Segretario comunale di Mugnano per la stipula del contratto di abbonamento con il concessionario dell’illuminazione elettrica signor Ludovico Chianese. Per il trasporto di merci o materiali vi era l’altra categoria, ovvero quella dei carrettieri e di quel periodo si ricordano un certo Alfonso Mangiapili e Cipolletta Domenico i quali, su richiesta dell’amministrazione comunale mugnanese, trasportarono i materiali di risulta delle cunette durante i lavori per la costruzione della strada per Calvizzano. Con l’incalzante rivoluzione industriale degli anni cinquanta molte carrozzelle lasciarono il posto alle moderne automobili e ovviamente agli autobus pubblici.


(Sopra: foto anni 50, Biagio Imperatore. Clicca per ingrandirla)

testi di Carmine Cecere

mercoledì 19 luglio 2023

Storia degli emblemi dei Comuni a nord di Napoli

Già durante il dominio dell’antica Roma era uso ostentare in battaglia gli stendardi su cui venivano rappresentati i simboli dell’imperatore regnante, ma in sostanza l’araldica prende vita sul finire del XII secolo. Pionieri di tale pratica furono senz’altro i nobili e i guerrieri, i quali si servirono di ciò per legittimare la loro appartenenza a una famiglia o a un gruppo politico. La raffigurazione degli stemmi era varia e accurata era la ricerca della simbologia. Gli studiosi del ramo riferiscono che il ricorso all’uso degli emblemi avvenne durante le Crociate, anche se la maggior parte degli storici sono giunti alla conclusione che, per risolvere i problemi di identificazione durante i tornei, a causa degli elmi chiusi, si dovette ricorrere a segni convenzionali impressi sulle armature per poter riconoscerne i partecipanti. Quindi gli antichi stemmi furono, come per noi oggi la carta di identità, un documento di riconoscimento: in essi si racchiudevano, in maniera sintetica, i dati personali. L’araldica civica risale all’avvento dei Comuni e solo nel XIII secolo il fenomeno si estese in tutta Europa. Anche i Comuni della fascia a nord di Napoli, quindi, si dotarono, nel corso della loro esistenza, di questi dispositivi, anche se per alcuni di questi non si conoscono le date ne il significato dei simboli scelti. L’ipotesi che il toponimo Mugnano derivasse da Munio, ossia mura e non mugnai, fece si che l’emblema, coniato con l’avvento dell’unità d’Italia, fosse di nuovo sostituito con il D.P.R. del 11 Novembre del 1974. Difatti l’antico stemma, nel quale era raffigurato un mugnaio che faceva girare una macina con l’aiuto di un asino, venne sostituito con l’attuale così composto: uno scudo azzurro, con tralcio di vite posto in banda abbassata sul fianco sinistro dello scudo, pampinoso di sei e fruttato di quattro, il tutto d'oro, sormontato da uno stiletto d'argento posto in palo manicato d'oro con ornamenti esteriori da Comune. Le cronache maranesi riportano che in piazza Arco vi fosse un antico e gigantesco tiglio, piantato, come albero della libertà, durante la rivoluzione partenopea e che nel 1845 fu abbattuto perché vetusto e malaticcio. È probabile che l’autore dello stemma di Marano si sia ispirato all’antico albero, poiché l’emblema è cosi composto: un campo azzurro con al centro uno scudo ed un tiglio, recante alla base un putto alato, che poggia i piedi su un prato verde; lo scudo è sormontato da una corona di torri civiche e percorso nei due lati sottostanti lo scudo da un ramo di ulivo, ed uno di quercia, annodati in basso con fiocchi e nastro in oro. Il fantastico toponimo di Calvizzano, a detta del suo primo storico, il notaio Marco Antonio Syrleto, derivi dal fatto che nell’antichità, in seguito alle tante guerre e pestilenze “si trovavano molti sepolcri ripieni solamente di teschi, che egli chiama “Calvice”. Quando in un secondo momento i sani sarebbero venuti ad abitare nel nostro territorio, dall’unione dei Calvi ai sani, sarebbe venuto il nome Calvisani, dal volgo, in seguito, tradotto in Carvizzano e poi Calvizzano”. Di parere diametralmente opposto è il sacerdote Raffaele Galiero, il quale, nel suo “Il mio paese” pubblicato negli anni ’70, asseriva che la cittadina prese il nome dell’antica famiglia romana Calvisia e cioè Calvisiano poi Calbictiano ed infine Calvizzano. Lo stemma è attualmente così composto: di colore verde ed uno scudetto barocco d’argento, caricati di una testa calva, rivolta di profilo al naturale. Il vessillo di Giugliano si rifà in un certo qual modo alla posizione geografica del luogo, nonché alla conformazione del territorio essendo situata nella zona denominata “Campus Leborius”. Nello stemma è riprodotta una donna gravida che riposa distesa su di un lembo di spiaggia della Campania Felix; questo ideogramma, oltre a designare la fertilità del territorio, si riferisce alla città di Cuma (il termine “sono incinta”, difatti, corrisponde al greco “Kumaìno” la cui radice è la stessa di “Kume”). Quello di Qualiano è alquanto complesso e “consiste in un rettangolo in tre tronconi, in alto è raffigurata una torre merlata. Nel primo troncone con fondo rosso porpora vi sono due rami di quercia e di alloro annodati da un nastro dai colori Nazionali; nel troncone di centro con fondo dorato vi è rappresentata la figura di Santa Chiara che stringe fra le mani un calice con l'Ostia Consacrata; nel troncone di sotto con fondo rosso vi è una quaglia al naturale. Il tutto circondato da due rami, uno di quercia ed un altro di alloro, annodati da un nastro di colore rosso”. Qualiano, dal 1340 al 1805, fu feudo del monastero di S. Chiara in Napoli. Lo stemma fu concesso con Regio Decreto del 15 ottobre 1935. Il significato del toponimo Melito sembra essere alquanto esplicitamente nel nome stesso e cioè meleto; come pure nello stemma è presente un albero del citato frutto. Contrariamente, però, a quanto riferisce Antonio Jossa Fasano nel suo “Melito nella storia di Napoli” del 1978, il quale sostiene che le denominazione Melito derivi da melma, poiché nell’antichità “le acque ristagnanti nel pubblico fossato invadevano, nei periodi di piena, il terreno circostante”. Nell’emblema di Villaricca sono presenti tre spighe di grano, le cui spighe palesano l’antica attinenza con la denominazione Panicocoli. L’attuale stemma è cosi composto: Fondo azzurro, lupo al naturale su di una pianura di verde, sormontato da tre spighe di grano al naturale, circondato da due rami di quercia e di alloro annodati da un nastro dai colori nazionali, il tutto sormontato da una corona con nove torri. Fu concesso con Regio Decreto il 14 Ottobre del 1937.

Comune di Qualiano 
     
Comune di Marano


Comune di Calvizzano 

        

Comune di Melito 


Comune di Giugliano 

Comune di Villaricca 


















Sopra: stemma del Comune di Mugnano
Testi di Carmine Cecere 

martedì 18 luglio 2023

L'autunno nei nostri antichi Casali

Finita l’estate, dopo che le nostre mamme e tutte le massaie avevano svolto il rituale delle bottiglie di pomodoro, il ritorno a scuola era segnato dai profumi dell’autunno. Con il grembiulino nero e il fiocco nuovo scintillante, attraversavo una Mugnano laboriosa e intenta a prepararsi per i mesi invernali. Nelle coorti degli antichi palazzi vi era un mondo in pieno fermento, nelle quali si intravedevano uomini e donne indaffarati, ognuno occupato a fare i propri mestieri. Innanzi ai poveri bassi avveniva l’essiccazione delle noci, i preparativi della premitura delle uve nostrane e le donne che si prodigavano alla salatura delle alici e alla messa sottolio delle tradizionali melanzane, riempiendo grossi recipienti di ceramica. Dall’egregio lavoro del Reverendo Francesco Gargiulo, “Mugnano di Napoli fra storia e tradizioni”, stralciamo un passaggio ricco di sapori antichi: «Col ritorno dell'autunno, alla raccolta delle noci, mele e pere si aggiungeva la vendemmia, che generalmente si svolgeva come in un alone di esilarante allegria. La raccolta dell'uva pendente da alti pergolati a festoni era fatta con scale strette e lunghe, o con treppiedi nei rami più bassi. Si lavorava sodo, anche se si passava del tempo cantando, e al termine della giornata si faceva sentire la stanchezza. Messa l'uva in larghi tini veniva pigiata a piedi scalzi per ore intere, finché non veniva giudicata adatta per la fermentazione, che si compiva in altri recipienti più capaci. A fermentazione ultimata si procedeva alla torchiatura, che era fatta con torchi a volte dalle proporzioni gigantesche, tenuti sotto pressione con una lunga sbarra a forza di braccia. La rivoluzione industriale ha ormai relegato nei musei la maggior parte degli strumenti di lavoro di cui si è servito l'uomo nel passato, e forse sono ormai dimenticati senza alcun rimpianto. Ma rimane un fatto incontestabile che, nonostante il progresso e le innumerevoli macchine di ogni specie oggi a disposizione, quando si ha la possibilità di gustare un prodotto dei vecchi metodi e dei vecchi tempi, si prova quasi spontaneamente un piacere inesprimibile. Si rimpiangono quei tempi in cui il lavoro dell'uomo rendeva più saporiti e più accettabili i vari prodotti che da sempre egli ha saputo trarre dalla madre terra con l'opera assidua delle sue mani e col sudore della propria fronte». Erano gli anni sessanta e sulle strade, dove oggi sfrecciano numerosi motorini, auto e quant’altro, era solito assistere al passaggio degli ultimi birocci carichi di contadini che all’imbrunire ritornavano a casa. In quegli anni, in paese, vi era ancora chi governava qualche mucca, ricavando, così, un po' di soldi dalla vendita del latte appena munto. In “Giugliano anni ‘50” di Emmanuele Coppola, leggiamo che per le strade dei nostri paeselli i caprai davano il buongiorno mentre mungevano all’istante le poche capre di loro proprietà, riempiendo i contenitori delle donne che li circondavano intenti, quest’ultime, a chiacchierare tra loro. Ricordo con tenerezza che fino a pochi anni fa per le strade della moderna Mugnano era sovente assistere al passaggio dell’ultimo capraio Francesco Maisto la cui scomparsa è avvenuta pochi anni or sono. Con il suo modesto gregge se ne andava pascolando nei pochissimi e brulli campi rimasti nel circondario e ancora vi era qualcuno che da lui si riforniva del pregiato latte. Con le prime piogge autunnali spuntava il “conciambrelli”, colui che risolveva qualunque problema legato agli ombrelli, non come adesso che, all’insorgere del primo guasto, li si butta senza pensarci due volte. Questo artigiano del riciclo anch’esso girovagava per le strade l’intera giornata nel tentativo di sbarcare il lunario. Per le riparazioni bastavano un po’ di filo, delle pinze, delle tenaglie e un martello. Per porre rimedio al freddo in quegli anni, in quasi tutte le case, era d’uopo l’uso della “vrasera” (braciere), un disco di rame nel quale si accendeva del carbone. Gli indumenti venivano messi ad asciugare sul braciere stesso, su una specie di cupola in legno. Di sera poi era naturale ritrovarsi intorno al braciere a chiacchierare o ad ascoltare le storie del più anziano della famiglia.  

Sopra: donne che si adoperano al
Confezionamento dei pomodori.
Sotto: essiccazione delle noci in
Una coorte di un palazzo.
Entrambe le foto sono scattate 
A Mugnano negli anni '80.



testi di Carmine Cecere

sabato 15 luglio 2023

Mugnano ha fatto le scarpe a tutti

Polo tessile nell’antichità e calzaturiero nei tempi moderni

Per oltre due secoli la principale risorsa economica di Mugnano, oltre al lavoro della terra, è stata la lavorazione della canapa tessile. Già dal 1600 questo settore fu il polo trainante dell’economia mugnanese. Da un censimento compiuto dall’amministrazione comunale dell’epoca fu evidenziato che il 45% del coltivato era costituito da piantagioni di canapa contro il 55% del raccolto di grano. I prodotti confezionati nelle micro-aziende mugnanesi, tutte a carattere familiare, coprivano le richieste del settore marittimo. La flotta borbonica, infatti, come le altre Repubbliche marinare, si approvvigionava di cordame e vele realizzate dai nostri prestigiosi artigiani. Più del 60% delle famiglie mugnanesi era occupato in questo settore la cui sede di lavoro era lo stesso basso in cui si era costretti a vivere. Manco a dirlo la giornata lavorativa non aveva orario e a collaborare, con i genitori, vi erano anche i più piccoli. Ogni abitazione, ogni tugurio aveva il suo telaio il cui funzionamento permetteva di sbarcare il lunario e di tirare avanti. Diversi furono quelli che da questo lavoro ne ricavarono benefici economici alquanto consistenti, fino a permettere notevoli cambiamenti di vita. Ma, purtroppo, la mancata programmazione di nuovi indirizzi e soprattutto quella dello sviluppo industriale non permisero i necessari traguardi commerciali che questo settore faceva auspicare. Altro boom economico, se così si può dire, Mugnano lo visse negli anni sessanta, quando il settore calzaturiero pervase l’intera comunità. Molte piccole fabbrichette si presentarono sul grande mercato riscuotendo successo e ottenendo commesse per il mercato italiano ma anche per quello internazionale. Sul finire degli anni sessanta Mugnano contava oltre venti fabbriche, con almeno due di un certo rilievo sia per numero di dipendenti che per la qualità dei prodotti. Tra le più rinomate si annoverano quella di Umberto Verde, di Casuccio e Scalera, di Cillo, “Dominique”, Russo e Albano, quasi tutte ubicate in Via Napoli, sulla principale arteria della città. Da dati approssimativi si legge che il settore calzaturiero coinvolgeva oltre il 40% dell’intera popolazione, non vi era casa dove non vi fosse almeno un componente della famiglia che svolgesse il lavoro di orlatrice. Molti, infatti, furono i giovani che, non completando gli studi, trovarono in questo comparto uno sbocco lavorativo. Da una recente ricerca di settore, effettuata da Equal Emergere, sono risultati dati importanti e significativi, dai quali si è riscontrata la presenza, sul territorio, di un numero considerevole di imprese. La produzione calzaturiera mugnanese, come è tradizione, si rivolge al mondo femminile sia per le calzature estive sia per quelle invernali. I manufatti mugnanesi si differenziano, per la loro medio-alta qualità, grazie alle maestranze che hanno fatto tesoro della tradizionale esperienza. Il comparto mugnanese inoltre si distingue dalle società del settore  presenti nel giuglianese per le imprese specializzate  “nella produzione di semilavorati ed accessori tipici: suolifici, modellerie, tacchifici e tomoifici”. A Mugnano le imprese avente un proprio marchio se ne contano circa dieci, quelle con uno proprio e con terzi solo cinque; vi è inoltre un tacchificio, un suolificio, cinque tomaifici e quattro società di assemblaggio, una invece di produzione di modelli in cartoncino e due fornitori di accessori. Anche il mercato mugnanese in questi ultimi anni però risente della forte concorrenza degli asiatici. Ad accusare l’avanzata dei cinesi è soprattutto la qualità medio-bassa che contrapposta ai bassi costi di mano d’opera degli orientali fa naturalmente fatica ad avere la sua fetta di mercato. Per concludere, anche se l’argomento trattato meriterebbe un ampio approfondimento, voglio ricordare una figura emblematica del sindacato di categoria, nonché valente professionista del settore, Gaetano Scarallo la cui dipartita è avvenuta alcuni anni or sono.    

Gaetano Scarallo alla festa
dell'Unità nel 2005
 
Il calzaturificio Verde, ora al suo 
Posto c'è un centro di danza

testi di Carmine Cecere 

venerdì 14 luglio 2023

A Calvizzano le vacanze del Maresciallo d’Italia

Re Umberto I di Savoia, nel 1892, conferì all’illustre calvizzanese Giuseppe Mirabelli il titolo di Conte. Titolo che culminava la prestigiosa carriera di magistrato prima e di senatore poi. Giuseppe Maria nacque a Calvizzano nel 1817, entrò in magistratura nel 1841 rivelandosi giurista di inaspettate qualità fino ad ottenere l’ufficio di Giudice di Gran Corte Criminale. Carica da cui fu estromesso nel 1849 dal governo borbonico, per i suoi palesi sentimenti liberali e che poi rifiutò quando Ferdinando II lo richiamò a riprendere di nuovo l’esercizio. Con l’unità d’Italia riprese la sua professione, rientrando in magistratura e rivestendo, poi, la carica di Primo Presidente della Corte di Cassazione di Napoli. Nel 1861 fu deputato parlamentare, dopodichè prese posto tra gli scranni del Senato e dove “portò, nell’alto Consesso, la sua vasta cultura giuridica”. Ritiratosi nella sua casa di Napoli, trascorse il suo collocamento a riposo pubblicando monografie giuridiche fino a quando nel 1901 lasciò questa terra. La figlia Maria andò in sposa a Federico De Rosa dalla cui unione nacque Sara. Nel clamore della “Belle Epoque” la borghesia napoletana era sovente trascorrere i giorni d’estate ai bagni di mare. Rinomati erano quelli di Portici, il cui luogo fu galeotto per l’incontro, determinante, tra le famiglie Diaz e De Rosa. Tra i rampolli delle due rispettive famiglie, Armando e Sara, nacque una tenera amicizia culminata poi in amore. La famiglia di lei non era per niente entusiasta di questa unione, poiché per la figlia auspicavano un partito migliore. Armando Diaz aveva 12 anni in più rispetto a Sara quando chiese la sua mano alla famiglia De Rosa. Dopo due anni di fidanzamento il matrimonio fu celebrato nella chiesa di Santa Maria la Nova, Sara aveva appena 21 anni. All’indomani del matrimonio la coppia si trasferì a Roma dove ebbe tre figli: Marcello, Anna ed Irene. La carriera del giovane capitano era tutto un crescendo. Nel 1911 tornò dalla campagna di Tripoli con la medaglia d’argento, ottenuta dopo il ferimento nella battaglia di Zanzur al comando del 21° reggimento. Dopo la disfatta di Cadorna a Caporetto, all’ardimentoso Diaz fu affidato il Comando supremo delle forze armate italiane. Sara era orgogliosa del suo Armando e lui apprezzava i consigli che lei spesso, con passione, gli suggeriva. La vita che i due dovettero affrontare non fu certo cosa facile, visto che il generale era quasi sempre lontano da casa e continuamente in pericolo. Fra i due però vi era un’intensa corrispondenza, un bisogno imprescindibile dell’anima, quel filo del telefono da campo, poi, li teneva sempre uniti. Spesso capitò che i coniugi Diaz, per scaricarsi di dosso la tensione dei momenti difficili, trascorressero i caldi giorni d’estate a Calvizzano, nella casa del nonno Giuseppe, lontani dai fasti della vita mondana. Il piccolo paesello di allora offriva, al Maresciallo d’Italia, la quiete che desiderava e la salubrità della vegetazione circostante: dove nei meriggi assolati amava starsene all’ombra degli alberi nel giardino dei parenti. Vinta la “grande guerra” il generale Diaz, su richiesta del Podestà Domenico Mirabelli, cugino di Sara, regalò, per completare il monumento ai caduti calvizzanesi, un cannone sottratto al nemico austriaco. Il generale si spense nella casa romana nel 1928, a causa di una polmonite. Sara, invece, visse per altri 23 anni nel ricordo e tra i cimeli di guerra del generale: come scrisse sulle pagine de “Il Mattino” il cronista Donato Martucci, quella domenica del 1951, all’indomani della dipartita della Duchessa della Vittoria Sara De Rosa Diaz.


(Nella foto in alto: al centro il Generale Diaz a Calvizzano. Foto concessaci dall'ing. Davide Bruno dei conti Mirabelli)

testi di Carmine Cecere