Borbonici mugnanesi

La teoria “gattopardiana” non collimava certo con i sentimenti profondamente borbonici dei gruppi che, in ovvia clandestinità, nacquero nei nostri casali all’indomani dell’ingresso in Napoli di Garibaldi e della successiva consegna del regno al tiranno sabaudo, la cui opera ebbe compimento con la resa della piazzaforte di Gaeta e il disfacimento dell’intero esercito. Mentre si ammainavano i vessilli gigliati dai bastioni gaetani, sulla vetta dei Camaldoli i gruppi devoti a Franceschiello issavano, fieri, la bandiera dell’antico regno. Si narra che tale bandiera fu confezionata dalle abili mani di qualche tessitrice di Mugnano e che la banda del maranese Cerullo, trovandosi a passare in detto casale, la ebbe in dono da tre suoi affiliati mugnanesi. Il vessillo fu innalzato su di un albero nel bosco della collina dell’Eremo ed era visibile dai paesi sottostanti. Alfonso Cerullo, maranese di nascita, era Caporale di gendarmeria quando il reale esercito borbonico fu disciolto; con il suo reparto era di stanza negli Abruzzi ma dovette ripiegare poi a Cisterna dove avvenne la capitolazione. Divenuto un soldato sbandato, ma fermamente convinto delle proprie idee, una volta giunto a Marano fu sostenuto da alcuni comitati borbonici napoletani i quali attraverso l’opera di Macedonio di Maria, anch’egli di Marano, la cui fama di accanito sostenitore borbonico era conosciuta da tutti, lo rifornivano quando era possibile di armi e vettovagliamento. Il gruppo di fuoco che si andava a costituire nel nostro territorio era frutto del disegno strategico militare dei succitati comitati, il cui scopo era quello di sostenere, appena possibile, il ritorno del re Borbone; ritorno auspicato da molti ma disatteso poi quando le potenze europee abbandonarono Francesco II al suo triste destino. Le bande o compagnie che agivano nel nostro territorio erano diverse, ma quelle più determinate e consistenti di numero ne erano almeno tre: quella di Crescenzo de Matteo, la banda di Salvatore Reppe e quella del ventisettenne Alfonso Cerullo. La compagnia capitanata dal Cerullo era composta da circa cinquanta uomini e la maggior parte di questi erano ex soldati borbonici, i quali nel rispetto delle proprie idee rifiutarono di passare nelle file nemiche e si diedero alla macchia. Nell’interrogatorio effettuato dall’Ispettore Federico Sbarri della Questura di Napoli, all’indomani della cattura del 28 novembre del 1861, il Cerullo elenca i nomi dei componenti la banda: Luigi Petrella ex soldato borbonico di Napoli; Crescenzo di Matteo gendarme borbonico di Pianura; i fratelli Antonio e Francesco Carraturo di Marigliano ex soldati borbonici; Pasquale Panella di Pozzuoli; Francesco Mastrangelo, tromba borbonica; Biagio Fedele, napoletano; Michele Rosselli, siciliano, anch’egli trombettiere; Antonio Blauso di Maddaloni soldato borbonico e disertore di quello piemontese. Saverio Perrotta e Saverio Lallone di Marano; Nicodemo Ferrillo di Calvizzano; Natale Vallefuoco di Mugnano; Vincenzo Schiattarella, anch’egli di Mugnano, fu soldato borbonico poi passò nell’esercito italiano. Gennaro Coppola di Panicocoli, Michele Paragliola di Marano, Gaetano e Luigi Passero di Marano, anche questi soldati borbonici; Fonso Gaetano di Mugnano; Salvatore Vaccaro, Luca Mamola, Ferdinando Sica, Raffaele Lajerno, Carlo Molaro e Biagio Pianese, tutti del casale maranese. Nel giugno del 1866, il pretore di Marano, Enrico Maria Romano suggerì alle autorità pertinenti lo scioglimento dell’amministrazione comunale, poiché riteneva che diversi componenti della Giunta e dello stesso Consiglio parteggiavano, palesemente, per il deposto governo borbonico. Nell’elenco dei sospettati furono inclusi il Sindaco Vincenzo Proto, l’Assessore Emiddio Battagliese, ex giudice criminale, Castrese Biondi e Aniello Spinosa, nonché il sacerdote Agostino Catone al quale si imputava di servirsi del confessionale per scopi di chiara propaganda a favore del deposto governo. Come pure il Cavaliere Eugenio Bisogno, di cui si narra che invitasse i contadini a disconoscere l’autorità dell’usurpatore savoiardo. Tra i documenti riportati nell’egregio lavoro del Barleri troviamo un certo Salvatore D’Alterio detto “Squarcione” di Giugliano, il quale accusato di brigantaggio fu condannato a dodici anni di lavori forzati. I luoghi preferiti dai rivoltosi erano senz’altro i boschi e la conformazione del territorio di allora lo permetteva tranquillamente; dai Camaldoli al Lago Patria le bande reazionarie agivano attraversando chilometri e chilometri di selve e poderi, riparandosi tra i ruderi abbandonati. E visto il crescente numero di bande, Vittorio Emanuele optò per una massiccia repressione. La caccia ai cosiddetti briganti di casa nostra fu spietata, il governo piemontese mise in campo circa cinquemila uomini per stanarli oltre alle forze locali e ai carabinieri che nel 1861 furono stanziati nei Comuni del circondario.

Francesco esortava tutti 
I suoi fedelissimi a resistere 

Settimanale "Provincia Oggi" 2006

Settimanale "Provincia Oggi" 2006


testo di Carmine Cecere

Nessun commento:

Posta un commento