Mugnano e la rivolta del 1647

Stremata da imposte e gabelle, Napoli con i suoi Casali, si rivoltò contro il dominio spagnolo di Filippo IV. I primi fuochi iniziarono all’alba del 7 luglio del 1647, quando i villici della vicina Pozzuoli, giunti carichi di frutta in Piazza Mercato, non vollero pagare l’ennesima grassazione. Asserendo che tale gabella doveva essere elargita dai venditori dei “puosti”. L’alterco, voluto, degenerò e quando l’eletto del popolo, Andrea Naclerio, colpì con uno schiaffo il cognato di Masaniello, i banchetti e i prodotti contenuti volarono per il largo della Piazza. La contesa fu combattuta con sassi e bastoni, dopodichè i rivoltosi, con a capo Masaniello, si diressero dal vicerè. Il duca d’Arcos, per niente impaurito, promise ai dimostranti di abolire alcune gabelle, tra cui quella della frutta: tassa per la quale si svilupparono tali eventi. Infatti la frutta non era mai stata tassata prima di allora, nel rispetto dei privilegi che Carlo V, in visita alla città di Napoli, promise al papa Clemente VII. Nei giorni seguenti gli scontri si intensificarono e dai bastoni, usati il giorno prima, passarono ad armi più consistenti. Dalle mura di Castel Nuovo gli spagnoli sparavano cannonate contro chiunque, mandando in rovina tutte le costruzioni vicine. Le fila dei rivoltosi furono rinforzate dai Lazzari e dai villici dei Casali del regno che, diffusasi la notizia, in tanti si riversarono nella capitale. Infatti nei vari scontri che si verificarono, presero parte orde di ribelli, armati di tutto punto, provenienti da Fratta, Giugliano, Melito, Calvizzano, Marianella, Panicocoli, Mugnano e Marano. Questi ultimi intervennero con circa cinquecento uomini e diverse donne armate di roncole e forconi. Inoltre informarono Masaniello del trattamento riservato loro dalla figlia del Marchese di Cirella, Catarina Mandrie y Manriquez de Mendoza, amante del re spagnolo Filippo IV, il quale per gratitudine le donò il feudo maranese. La bella principessa fu accusata, dagli stessi suoi sudditi, di tirannizzarli con numerose gabelle, dazi e mille soprusi. Allora il capopopolo ordinò di far piazza pulita della tiranna, saccheggiando e distruggendo tutto quello che gli apparteneva. E così avvenne. Il palazzo baronale fu devastato e dato alle fiamme, mentre la donna fuggì lanciandosi da una finestra. Si mise in salvo nascondendosi in una selva nei dintorni di Marano. Mentre a perire sotto i colpi dei ribelli furono alcuni figli dell’esattore della principessa, i quali tentarono di opporsi in qualunque modo ma furono travolti. La sospirata libertà, la rivolta popolare, la ribellione dei lazzari e la pazzia del pescivendolo venne soffocata nello stesso posto dove il capopopolo, Masaniello, gridò insieme a tanti: «mora il mal governo!». Ciò accadde durante i festeggiamenti della Madonna del Carmine, il giorno 16 luglio del 1647. La congiura, ai danni di Tommaso Aniello di Cecco d’Amalfi, 27enne, fu ordita senz’altro dal vicerè Rodrigo Ponz de Leon duca D’Arcos, ma è probabile, ed è quanto ne deducono gli stessi storici, vi sia stato l’assenso dello stesso Giulio Genoino, mente della rivoluzione “masanielliana”. A commettere l’omicidio del capo dei moti popolari napoletani fu la mano di Michelangelo Ardizzone, Andrea Rama, Salvatore e Carlo Catania i quali all’interno del santuario della Vergine del Carmelo gli tagliarono la testa. Morto Masaniello il vicerè ritrattò quanto aveva promesso e i prezzi delle gabelle furono ripristinati, compreso quello della frutta. Molti dei nobili napoletani che sembravano vicini all’idea rivoluzionaria di Masaniello, meglio ancora genoina, intimoriti dalle esecuzioni capitali che si susseguirono in quei giorni, ritornarono alla remissività della corona spagnola. Infatti un editto dell’Arcos perdonava quanti avessero simpatizzato, nei giorni della rivolta, con i gruppi popolari. Alcuni d questi furono i figli di Prospero Caracciolo i quali dimoravano a Mugnano (nell’attuale palazzo Aiello in Piazza Dante). Le ultime schermaglie di una rivoluzione in dirittura di arrivo si ebbero proprio a Marano nell’ottobre del 1647. In Contrada Trefole, in un podere del duca Dentice d’Accadia possidente in Marano e Mugnano, il Tuttavilla, capo delle armate spagnole, venne alle armi con gli uomini del rivoltoso giuglianese Giacomo Rosso, di alcuni nobili aversani e di circa duecento villici di Marano e dei Casali vicini. La battaglia fu cruenta e diversi furono i morti tra cui 14 civili e 16 soldati: il bottino del Rosso fu un cannone e diverse munizioni.

testo di Carmine Cecere

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